Amore: umano e divino
Quanti hanno amato i tuoi momenti di lieta grazia,
e hanno amato la tua bellezza con amore falso o vero,
Ma un uomo ha amato l’anima pellegrina in te,
e ha amato i dolori del tuo volto mutevole.
–William Butler Yeats
Gli americani concludono spesso le telefonate con i loro familiari dicendo “Love you!”.
Queste due parole, o tre (“I love you”), o addirittura quattro (“I love you so much!”), compaiono spesso anche in altri contesti, come nel caso di una madre che saluta il figlio che torna dal suo primo campo scout fatto lontano da casa. Oppure nel caso di una madre che torna da un lungo viaggio di lavoro, con il senso di colpa per essere stata lontana dal figlio per così tanto tempo.
Le parole o le brevi frasi possono diventare gonfie e vuote, quando vengono usate troppo spesso. Un altro esempio significativo è “Gesù Cristo”, una combinazione di nome e titolo che identifica un Maestro spirituale. Tuttavia, spesso fuoriesce come insulto dalla bocca di persone che hanno poca o nessuna relazione con quel Maestro. Allo stesso modo, la frase “per amore di Cristo” esprime spesso l’esasperazione di chi parla, piuttosto che un appello alla Luce che Cristo può portare. Sento usare queste frasi con così poca consapevolezza, che ho dovuto disciplinare la mia mente per preservare il significato più profondo e intimo che Gesù ha per me.
Tuttavia, può essere una buona cosa poter affermare l’amore con una frase breve e abituale, capace di diminuire o evitare la disarmonia: non sono d’accordo con te, ma ti voglio bene; sono stato via per un po’ di tempo e mi sei mancato, perché ti amo tanto; devo andare, ma non voglio lasciarti, perché ti amo tanto; ti dico queste cose perché ti voglio bene!
Quando si aggiunge una melodia a queste parole, si torna in parte al loro significato più profondo. Ricordo che Yoko Ono, in un’intervista, parlò del suo famoso marito, poco prima che venisse ucciso: “Per John è ancora molto importante poter cantare “I love you””. Molti anni dopo la sua morte possiamo ancora sentire questo significato, quando lo ascoltiamo cantare queste o altre parole analoghe.
Sri Yukteswar, tuttavia, getta una luce completamente diversa su questo argomento. Nell’Autobiografia di uno Yogi, leggiamo del primo incontro di Yogananda con il suo Guru. All’epoca si chiamava Mukunda, il suo nome d’infanzia. La scena è altamente simbolica: un affollato mercato nella parte bengalese della città di Benares rappresenta il mondo, dove persone di ogni provenienza comprano e vendono merci. Ma gli occhi di Mukunda notano un piccolissimo spazio invisibile a tutti gli altri: in un vicolo stretto scorge “un uomo simile a Cristo, con la veste ocra di uno Swami, in piedi e immobile”. Attratto magneticamente da lui, abbandona il mondo frenetico e si incammina verso lo stretto vicolo:
Gettando una rapida occhiata scoprii la figura tranquilla che fissava intensamente nella mia direzione. Qualche passo spedito e fui ai suoi piedi.
“Gurudeva”! Il volto leonino era proprio quello che mi era apparso in migliaia di visioni. Quegli occhi d’alcione, nel capo leonino con la barba a a punta e i riccioli fluenti, si erano spesso fugacemente affacciati nelle tenebre delle mie fantasticherie notturne, recando una promessa che non avevo compreso appieno.
“Anima mia, sei venuto a me!” Il mio guru continuava a ripetere queste parole in bengali, con la voce vibrante di gioia. “Quanti anni ti ho aspettato!”
Entrammo in una silenziosa comunione; le parole apparivano del tutto superflue. L’eloquenza fluiva in un cantico senza suono dal cuore del maestro al discepolo. Con l’antenna di un’intuizione inconfutabile, avvertico che il mio guru conosceva Dio e mi avrebbe condotto a Lui. L’oscurità di questa vita si dileguò in una fragile alba di ricordi prenatali. Tempo drammatico! Il passato, il presente e il futuro sono le sue scene cicliche. Questo non era il primo sole che mi vedeva dinnanzi a quei sacri piedi!
Con la mia mano nella sua, il mio guru mi condusse alla sua temporanea dimora, nel quartiere Rana Mahal della città. La sua figura atletica si muoveva con passo sicuro. Alto, eretto, dell’età di circa cinquantacinque anni, era attivo e vigoroso come un giovane. I suoi occhi scuri erano grandi, bellissimi nella loro insondabile saggezza. I capelli leggermente ricciuti addolcivano un volto di straordinaria intensità. La forza si fondeva sottilmente con la gentilezza.
(…)
Il rapido crepuscolo indiano aveva già calato il suo velo, prima che il mio Maestro parlasse di nuovo. I suoi occhi esprimevano un’infinita tenerezza.
“Ti dono il mio amore incondizionato.”
Parole preziose! Trascorse un quarto di secolo prima che ricevessi un’altra udibile espressione del suo amore. Le sue labbra erano estranee all’ardore; il silenzio si confaceva al suo cuore oceanico.
Yogananda procede poi a descrivere gli anni di formazione che ha seguito nell’ashram del suo guru, affrontando e accettando gradualmente l’inflessibile disciplina ivi ricevuta.
Quando ebbi abbandonato ogni latente risentimento, constatai una netta diminuzione dei miei rimproveri. In modo sottile, il Maestro si ammorbidì, cedendo a una certa clemenza. Col tempo demolì tutti quei muri di razionalizzazioni dietro ai quali generalmente si difende la personalità umana. Fui ricompensato da una spontanea armonia con il mio guru Scoprii così che egli era fiducioso, sollecito e tacitamente amorevole. Essendo però riservato, non dispensava mai parole affettuose.
Tacitamente amorevole, senza parole affettuose – niente “Love you,” niente “I love you so much…” Venticinque anni dopo, Yogananda, dopo aver per quindici anni condiviso gli insegnamenti del suo guru, tornò in India. Il capitolo dedicato a quella visita, intitolato Gli ultimi giorni con il mio Guru, contiene uno dei passaggi più commovente di tutto il libro.
“Guruji, sono contento di trovarvi solo questa mattina.” Ero appena arrivato all’ashram di Serampore, portando con me un fragrante carico di frutta e di rose. Sri Yukteswar mi rivolse uno sguardo mite.
“Qual è la domanda che volevi farmi?” Il Maestro si guardò intorno nella stanza quasi cercasse una via di scampo.
“Guruji, venni da voi che ero ancora studente liceale; Ora sono un umomo adulto, perfino con qualche capello grigio. Benché fin dall’inizio abbiate sempre riversato su di me il vostro silenzioso affetto, vi siete accorto che soltatno una volta, il giorno del nostro primo incontro, mi avete detto: !Ti voglio bene?” Lo guardai implorante.
Il Maestro abbassò lo sguardo. “Yogananda, devo portare nella fredda sfera del discorso i caldi sentimenti che si custodiscono meglio nel silenzio del cuore?”
“Guruji, so che mi amate, ma i miei orecchi mortali anelano a sentirvelo dire.”
“Sia come vuoi. Durante la mia vita coniugale, spesso desiderai ardentemente un figlio maschio da istrire sul sentiero dello yoga. Quando tu entrasti nella mia vita, però, mi sentii appagato: in te ho trovato mio figlio.” Due lacrime cristalline brillarono negli occhi di Sri Yukteswar. “Yogananda, ti amerò sempre.”
Strano a dirsi, in gioventù ero un po’ scettico riguardo a questa scena, pensavo: “Perché un grande Maestro come Yogananda dovrebbe avere avuto bisogno di una simile conferma da parte del suo Guru? E perché il Guru avrebbe dovuto essere così emotivo al riguardo? In altre parole: Come possono essere così umani?
Nel corso degli anni ho capito che non c’è divinità senza umanità, e che è proprio la loro umanità a completare la grandezza di questi due uomini: altamente evoluti e segnati da un legame intuitivo e senza parole, condiviso, non intaccato dalla distanza o dal passare del tempo.
Chiediamoci onestamente: l’amore tra due ego può mai soddisfare pienamente il cuore? Ricordo che anni fa, in compagnia di Swami Kriyananda e di un gruppo di devoti di Roma, partecipai a una conferenza tenuta da un conoscente. Il messaggio sentimentale di quest’uomo era: amiamoci tutti e siamo gentili gli uni con gli altri. Per far capire il suo punto di vista, aveva preso un canto devozionale di Kriyananda e ne aveva cambiato le parole in modo che si adattassero alla sua filosofia. Le parole originali erano:
Il mio cuore è Tuo, sempre Tuo, Signore
Cantando a Te
Amando te
Nella gioia del Ciel vivrò.
Il nostro amico aveva cambiato l’oggetto del suo amore, da Dio alla sua ragazza. Cantava la melodia di Kriyananda con le seguenti parole:
Io ti voglio bene
E lo canto sempre per te
Ti voglio ben, ti voglio ben
E questo mi fa star ben!
Noi devoti di Ananda Roma eravamo inizialmente un po’ influenzati da questi discorsi melensi. Per una settimana o due, cercammo di portare più armonia nei nostri tentativi, onesti, di cooperare l’uno con l’altro, includendo come nota finale “ti voglio bene” nelle nostre telefonate, come questo presentatore aveva incoraggiato a fare, e come molti americani fanno. Ma poi, durante un pranzo con alcuni di noi, Kriyananda espresse la sua opinione su questo tipo di comunicazione. Non aveva apprezzato l’interpretazione di quell’uomo della sua canzone devozionale, e aggiunse: “Difficilmente esprimo l’amore in modo esplicito, con le parole. Piuttosto lo faccio attraverso le mie azioni. E le mie prime attenzioni vanno sempre a Dio, che è la fonte di ogni amore. Contattando Lui per primo, il Suo amore può fluire attraverso di me verso le altre persone. Solo questo amore può trasformarle. Il mio amore da solo, al confronto, scalfirebbe appena la superficie”.
L’amore per Dio, dal punto di vista religioso, è devozione. La devozione è un sentimento sostenuto dalla concentrazione. È amore più impegno.
È importante capire che questo non sminuisce in alcun modo l’importanza dell’amore umano. La natura stessa ha innestato profondamente il bisogno di amore umano nei nostri cuori, soprattutto sotto forma di istinto materno. Ad un livello più fisiologico, questo istinto serve alla sopravvivenza della specie. Nessun essere vivente e cosciente può sopravvivere senza una certa quantità di amore materno. Non è semplicemente l’essere “il più adatto” che permette di sopravvivere – come ha affermato Darwin – ma piuttosto è il legame tra madre e bambino.
Sri Yukteswar non separa la Natura da Dio, ma non si concentra nemmeno sui suoi meri aspetti fisiologici. Al contrario, identifica l’essenza spirituale che sta alla base della Natura e la indica con una bellissima parola sanscrita, Prakriti. Ecco come la descrive:
La Forza Onnipotente, o in altre parole la Gioia Eterna, che produce il mondo; e il Sentimento Onnisciente, che rende il mondo cosciente, dimostrano la Natura di Dio Padre. [1]
Il sentimento che rende cosciente il mondo – queste parole potenti mi riportano alla mente un ricordo. Molto tempo fa il mio figlio più piccolo, che all’epoca aveva cinque anni, mi chiese, di punto in bianco: “Papà, tu esisti?”.
“Sì”, risposi, senza pensarci.
La risposta, penso adesso, era interessante quanto la domanda, uscita dalla bocca di un bambino.
Ciò che la rendeva interessante era la sua immediatezza.
Certo che esisto! Mille gioie fugaci, mille dolori, mille dure lezioni da imparare e tante altre cose scaturite dall’abbondanza della vita mi hanno reso profondamente consapevole del fatto che esisto. Tutte queste impressioni sono state percepite, e non ci può essere percezione senza esistenza.
Quando scrivo “percepito”, forse intendo in realtà sentito, perché Sri Yukteswar dice, parafrasando quanto detto sopra: il sentire rende consapevole l’esistenza. Per estensione, più i nostri sentimenti sono in sintonia con una presenza spirituale nella Natura e dentro di noi – che egli chiama “il Padre” – più la nostra coscienza si espande. Anche questa sintonizzazione dei sentimenti si chiama devozione.
Visto da questa grande prospettiva, l’amore non è più un istinto di sopravvivenza fisica, ma un dono celeste della Natura, necessario per lo sviluppo della nostra spiritualità innata.
Non c’è nulla di pio o di ipocrita nella vera devozione. Non è un servizio a parole fatto alla chiesa, offerto attraverso infinite preghiere borbottate. Non è nemmeno un sermone carico di emozioni, gridato da un pulpito. Non è nemmeno il meraviglioso entusiasmo che possiamo provare all’inizio della nostra ricerca spirituale. È piuttosto la determinazione, sul campo di battaglia della vita quotidiana, a concentrarsi risolutamente su qualità come la pace, l’amore Divino, l’autocontrollo e la Luce.
La parte femminile dentro di noi tende a concentrarsi sulle nostre sensazioni attuali, come realtà suprema. “Sento quello che sento e non posso sentire quello che non sento”, è la razionalizzazione che sta alla base di questo atteggiamento. Il sentimento è, per sua natura, perentorio. La parte femminile in noi, semplicemente non vuole essere convinta con dei ragionamenti, che non confermino ciò che sente.
D’altra parte, una volta che la natura si è evoluta al livello della specie umana, ci spinge continuamente ad espandere la nostra coscienza, e questo processo deve coinvolgere anche la facoltà di sentire. Se accettiamo l’idea che i sentimenti del cuore siano multistrato, allora dobbiamo anche accettare il fatto che uno strato di sentimenti non può negare l’esistenza di strati più profondi. La nostra reazione alla musica ne può rappresentare un esempio.
Una volta avevo un’amica alla quale sembrava si fosse aperto un nuovo mondo interiore di bellezza dopo aver ascoltato per la prima volta il secondo movimento del Concerto per pianoforte e orchestra n. 21 di Mozart. Ne seguì una conversazione interessante.
“Com’è possibile che qualcuno scriva qualcosa di così incredibilmente bello?”, chiese stupita dopo un lungo silenzio.
“Devi essere bello dentro per essere in grado di produrre qualcosa di bello fuori”, risposi.
La sua risposta alle mie riflessioni non mi sorprese, perché sapevo che era cresciuta con poche persone riflessive e colte intorno a sé. La sua famiglia era stata disfunzionale. Sentiva che la vita l’aveva ingannata ed era generalmente pessimista sulla natura umana e su se stessa. Lottò visibilmente con la sua reazione iniziale alla musica, che l’aveva commossa così profondamente, e alla fine disse:
“No! Questo Mozart ha semplicemente padroneggiato un’abilità tecnica molto speciale!”.
Cercai di convincerla, ma senza successo. Il disco in vinile fu messo via, e con esso la nuova ricchezza di sentimenti che la musica aveva risvegliato nel suo cuore.
Il prezzo da pagare per non ascoltare l’invito della natura a crescere emotivamente e spiritualmente è la depressione, come scoprii di seguito nella mia amica.
Questa conversazione ebbe luogo in Olanda, dove la religione prevalente, il calvinismo, ha lasciato poco spazio ai sentimenti. La storia religiosa del mio Paese è tutta incentrata sulla rettitudine morale e civile, sul duro lavoro, sulla stabilità finanziaria e su un destino predestinato. Gesù dovrebbe essere il grande ispiratore di questa religione, ma non ho mai capito quale sia il suo posto in questo quadro desolante. Una visita in un’altra terra ha dato il via ad un risveglio personale: l’innata devozione che avevo provato per Gesù da bambino si è riaccesa con il mio primo viaggio in Italia, all’età di diciassette anni.
Dopo quel primo viaggio era il mio cuore, molto più che la mia mente, a cominciare a percepire la possibilità di una coscienza che oltrepassasse le limitazioni imposte dall’ego. Questa intuizione, sentita profondamente, mi indirizzò verso la filosofia orientale, senza però allontanarmi dal senso del Gesù, che abitava nel mio cuore. Quando iniziai a leggere di Swami Sri Yukteswar, nell’Autobiografia di uno Yogi di Yogananda, i racconti su questo grande Maestro di saggezza evocarono nel mio cuore la consapevolezza di antiche memorie.
Provo la stessa sensazione ancora oggi quando questo grande Maestro avvolge la sua aura intorno a me attraverso quel piccolo libretto che ha scritto. Ancora una volta, non posso assolutamente affermare di comprendere ogni parola della Scienza Sacra, ma sento che la sua luce di saggezza spiritualizza gradualmente tutti gli atomi viventi del mio cuore, nelle fasi che lui stesso identifica.
Mi entusiasma; mantengo il mio entusiasmo sforzandomi di seguire le sue istruzioni. Coltivo il desiderio di rivolgermi all’interno. Sviluppo la devozione.
La devozione, ci insegna Sri Yukteswar, è il desiderio del cuore di connettersi con le realtà interiori dell’anima. La concentrazione mentale necessaria per soddisfare questo desiderio libera gradualmente il cuore da ciò che lo opprime. Questo processo attira in particolare la nostra attenzione sul polo “nord” o positivo del sesto chakra – l’ajna chakra, spesso chiamato occhio spirituale o “terzo occhio” – situato nel punto tra le sopracciglia.
Prima di concludere questo blog con altri pensieri di Sri Yukteswar, immaginiamo di trovarci davanti alla porta d’ingresso di una terra astrale sconosciuta, di rara bellezza naturale e di possibilità spirituali al di là dei nostri sogni. I colori, i suoni e le fragranze che permeano l’aria elevano la nostra coscienza ad un livello tale da poter percepire l’unione tra lo Spirito e la Prakriti che ha definito. Il nutrimento di questa visita astrale sarà mille volte più soddisfacente del più squisito pasto preparato per noi sulla terra. Sri Yukteswar vuole che apriamo questa porta. Le seguenti righe ispirate parafrasano le sue istruzioni:
Concentrandoti sull’occhio spirituale, e rimanendo centrati nella colonna vertebrale, vieni battezzato, assorbito in un flusso sacro del Suono Divino. Questo battesimo è chiamato Bhakti Yoga. In questo stato farai un cambio di direzione definitivo: allontanandoti da questa grossolana creazione materiale delle tenebre, Maya, risalirai verso la tua Divinità, il vostro Padre Eterno, che avevi lasciato.
[1] Sri Yukteswar, La scienza sacra, Capitolo 1