Arrendersi
C’è un passo bellissimo del libro di Swamiji, In divina amicizia, a cui di recente mi sono sentita particolarmente attratta. Non si tratta di una lettera scritta, ma di una risposta verbale che Swamiji diede a un devoto che gli chiese come dovessimo relazionarci a lui.* A causa della natura spontanea dell’incontro, nella sua risposta intreccia diverse idee, offrendo forse delle risposte che molte persone presenti avevano bisogno di sentire. La parte che trovo particolarmente dolce riguarda il Maestro:
Nel mio rapporto con il Maestro, ho scoperto che mi sento più in sintonia con lui quando non penso a cosa io sto ricevendo da lui, ma piuttosto mi concentro su ciò che gli sto donando. Quando, con tutta la mia energia, gli offro gioia, apprezzamento, apertura, servizio—in breve, il mio stesso essere—ricevo da lui l’energia e le benedizioni più grandi.
L’abbandono mi ha sempre affascinato. Nella Bhagavad Gita, questo è il vero significato della cerimonia del fuoco yogica. Gettandoci nell’ardente occhio spirituale, ci purifichiamo sempre di più. Diamo il nostro piccolo sé per permettere al Sé di emergere piano piano. È come la cartapesta. Man mano che offriamo gli strati di carta che abbiamo accumulato sopra la vera natura dell’anima, cominciamo a rivelare il magnifico palloncino che abbiamo ricoperto nel corso di molte vite.
Ultimamente, però, ho cominciato a comprendere questo abbandono in modo più profondo, poiché sono stata in contatto più regolare con altri discepoli. Un esempio viene dall’aver aiutato nell’organizzare la visita di Asha Nayaswami in Finlandia, a ottobre.
La pianificazione ha richiesto molto più tempo di quanto mi aspettassi. Il nostro piccolo gruppo che ha guidato l’iniziativa si è riunito regolarmente durante l’anno.
Dovendo collaborare così spesso con loro, ho spezzato quella bolla che mi teneva sempre in una modalità di “apparire al meglio” quando ero con i devoti. Ora, non solo incontrarsi in satsang come fine a se stesso, ma anche come atto di servizio attraverso l’organizzazione, mi ha portato a investire tutta la mia energia in quei momenti, lasciando poco per mantenere quell’immagine di perfezione.
Asha e Nayaswami Kirtani tennero un satsang ad Assisi qualche anno fa che mi ha aiutato ad affrontare la paura che spesso derivava dal mostrarmi per come sono. Il tema era il bisogno e l’importanza di stabilire una comunità. Una delle immagini che utilizzarono fu quella di uno specchio: essere in comunità significa fungere da specchi, permettendo agli altri di vedersi come sono veramente, sia nel loro Sé superiore sia nel sé su cui tutti stiamo lavorando. E noi stessi possiamo prendere gli altri come degli specchi per noi, così che possiamo vedere sia il verso Sé della nostra anima, sia i veli di maya che oscurano la nostra percezione.
All’epoca, questo satsang non mi sembrava molto rilevante, ma la sua importanza è emersa nella mia vita quest’anno, quando ho intensificato il servizio che svolgo attraverso Ananda. In questo processo mi sono spesso ricordata di questo satsang e ho cercato gradualmente di offrire i momenti difficili, quelli in cui non sono al mio meglio, ai mentori che il Maestro mi ha inviato. Aprendomi con loro in queste situazioni, e in questo modo offrirle al Maestro, ho notato che la loro gentile guida mi ha aiutata a ridurre e persino dissolvere abitudini e schemi di pensiero radicati.
Arrivare a questo punto ha richiesto molto tempo, e a volte è stato doloroso. In quella stessa visita ad Assisi, la mia prima mattina fu segnata da incontri strani con persone che sembravano non vedermi nemmeno. Una donna letteralmente si allontanò da me dopo aver risposto frettolosamente a qualcosa che avevo detto.Sono rimasta a sentirmi completamente sola nella sala della colazione. Decisi di agire e vedere se potevo servire in cucina per tenermi occupata per la settimana. Nel momento in cui stavo aspettando lo chef, Jayadev passò accanto a me e si fermò a guardarmi davvero. Fu la prima volta che mi sentii “vista” da quando ero arrivata e crollai, avendo un attacco di panico lì, in corridoio. Ma subito dopo, fu come se le mura che avevo costruito per paura di essere visto come l’essere imperfetto che sono (per ora) fossero state abbattute lasciandomi andare. È importante menzionare che ci è voluto l’aiuto di un altro devoto per abbatterle: non avrei potuto farlo da sola.
Credo che sia questo ciò di cui parla Swamiji più avanti nella stessa risposta che ho citato. Dice: “Il devoto saggio, piuttosto, consapevole di quanto sia difficile uscire dall’illusione, è desideroso di qualsiasi guida che possa ricevere nel suo cammino.”
Aprirsi a questa guida richiede però energia. Stiamo pianificando una visita al Villaggio e sono rimasta sorpresa da quanta più energia sia necessaria per organizzare questo viaggio rispetto ad altri che abbiamo pianificato di recente. Un’amica ha detto che è normale: andare e stare ad Ananda richiede che ci si impegni con una grande quantità di energia.
Quando l’ha detto in questo modo, ho avvertito un cambiamento nel modo in cui pensavo alla nostra visita. Invece di vederla come qualcosa per me, ho cominciato a considerare il viaggio come qualcosa che faccio per il Maestro. Ho scoperto che questo automaticamente ha aiutato a ridurre la tensione che provavo nel processo di pianificazione. Nei giorni successivi, tutti i problemi che stavamo avendo si sono risolti, se non esternamente, almeno interiormente.
È come dice Swamiji. Donandoci completamente, riceviamo molto di più di quanto avremmo potuto immaginare.
*Potete leggere l’intera risposta a pagina 156 di questo meraviglioso libro.