La vita in una comunità spirituale – Narra Nayawami Shivani

La mia prima ambizione da bambina era di diventare un rabbino. Veramente, erano le scritture che mi attraevano, e il suono della lingua sacra. All’età di sei anni incominciai a studiare l’ebraico e molto presto conoscevo tutte le preghiere a memoria. Purtroppo, non mi venne mai chiesto di recitarle di fronte alla congregazione, perchè nella tradizione ebrea ortodossa, alle donne non viene chiesto di leggere dalla Torah. Non possono diventare un rabbino o, come scoprii all’età di dodici anni, ricevere l’iniziazione per entrare nel corpo dei fedeli (bar mitzvah).

Per questo motivo, decisi di volgere la mia attenzione ad una nuova vocazione e di diventare un avvocato per la verità e giustizia. Mi applicai giudiziosamente ai miei studi, e ottenni un posto all’università di Washington D.C. alla facoltà di giurisprudenza. Malgrado avessi dedicato diversi anni della mia vita per raggiungere questo traguardo, fui delusa dal primo giorno.

Ricordo bene il corso in criminologia, a cui mi sentivo attratta. Nella prima sessione, esponendo il tema della legalità e moralità, il professore commentò che, chiunque credesse nell’esistenza di una legge naturale, o nella relazione tra moralità e legalità, era nell’università sbagliata e dovrebbe essere iscritto ad un seminario.Siccome quella porta mi era già stata chiusa, non c’era altro da fare che andare avanti e sperare che le cose migliorassero.

Oltre alle varie classi e alla montagna di compiti, lavoravo come assistente legale presso alcuni uffici legali privati, sia per fare esperienza che per mantenere i miei studi. Fui nuovamente disillusa quando scoprii non solo gli innumerevoli compromessi, ma anche il peso che questi comportavano per poter “vincere” un caso.

Completamente scoraggiata, abbandonai la scuola di legge dopo due anni e cominciai a cercare un ideale diverso a cui poter dedicare completamente il mio cuore e la mia energia. Questo era il mio vero desiderio, di aver una vita che mi sfidasse continuamente, che mi convolgesse completamene a tuttil i livelli del mio essere. Divenne impossibile per me anche solo immaginare di vivere in una società guidata da valori superficiali e masterialistici. Sognavo di essere una pioniera, di aiutare a creare un nuovo stile di vita.

Lasciai Washington D.C., salutai la mia famiglia in Pittsburgh e mi misi in viaggio con pochi possedimenti nello zaino e qualche dollaro in tasca. Avevo ventitrè anni ed era l’estate del 1968. Avevo abbastanza faccia tosta e senso d’avventura per attraversare il Paese facendo auto-stop, lavorecchiando qua e l. Quando fosse necessario. In Colorado mi unii agli hippies e figli dei fiori, e continuai a viaggiare per il Paese con una scimmietta ragno, che chiamai Uli sse, sulla spalla.

Con l’avventarsi dell’inverso, io e Ulisse ci accasammo in Palo Alto, dove trovai un lavoro come aiuto legale e segretaria per un avvocato che esercitava privatamente e dove continuai la mia ricerca spirituale alla “Free University”. Quello che cercavo, però, non lo trovavo nei gruppi d’incontro o nelle sessioni di gestalt. In fondo lo sapevo che la vita aveva in serbo qualcosa di speciale per me, ma sapevo anche che non lo avevo trovato. Scrissi nel mio diario a quell tempo: «Ho bisogno di un Guru che mi mostri la via».

Swami Kriyananda

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Swami Kriyananda

Sentii parlare di Swami Kriyananda per la prima volta quando ero in volo sopra la baia di San Francisco in in piccolo aereo. Il mio amico, il pilota, mi stava raccontando del meraviglioso insegnante di yoga, che aveva trovato in Palo Alto. Un vero e proprio maestro di yoga che si chiamava Kriyananda. L’accompagnai alla classe e fui sorpresa e non poco di scoprire che lo yogi era un americano che incominciava ogni lezione suonando la chitarra e cantando una delle sue composizioni. La sua voce, e il suo modo di condurre le posizioni era calmante. Ispirata dai suoi discorsi sul vegetarianismo, smisi di mangiare carne e, miracolosamente, smisi anche di fumare.

Alla penultima classe, Kriyananda ci disse che stava fondando una comunità spirituale su un terrono che aveva acquistato recentemente ai piedi della Sierra Nevada. Aveva appena completato la stesura di un libro, sul tema delle comunità cooperative, e invitò gli studenti a leggerlo e ad unirsi a lui per costruire la comunità.

Lessi il libro da capo a fondo senza fermarmi e immediatamente scrissi una lettere all’assistente di Kriyananda, John Novak, chiedendo di poter andare per due settimane in estate. Ricevetti presto una risposta positive e incominciai a pianificare un altro viaggi in auto-stop da una parte all’altra del Paese, con prima fermata il Ritiro di Meditazione di Ananda.

Comunità spirituale

Arrivai alle 3.30 del pomeriggio di domenica, 22 giugno. Ulisse aveva trovato da tempo una nuova dimora, ma avevo nuovamente pochi possedimenti nel mio fidato zaino, un sacco a pelo, $100, una copia del’ Atuobiografia di uno Yogi, che un amico mi regalò come regalo di addio e che non avevo ancora letto.

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Tre Cupole – Villaggio Ananda

Mostrai la lettera di John Novak a un vecchietto dalle maniere calme e posate, chiamato Satya, che mi accolse e mi mostrò i vari locali, il tempio a duomo, la cucina e sala da pranzo a duomo, l’ufficio a duomo e lo stabile con i bagni (non un duomo). Trovai un pino amico sotto cui dormire, e trascorsi il pomeriggio a raccogliere gli aghi del pino, con cui farmi un materasso.

Ogni mattina Satya suonava la campana del tempio e iniziava subito a condurci negli esercizi di caricamento e posture di yoga, seguite da meditazione. Troppo spesso non sentivo la campana, specialmente quando il vento soffiava nella direzione sbagliata. Così spostai il sacco a pelo sul terrazzo del tempio e dormii l¡, per assicurarmi di no perdere le pratiche del mattino.

Avendo trascorso ventidue dei miei ventiquattro anni a scuola, non avevo appreso abilità pratiche, oltre a come superare esami. Venni incaricata di svolgere delle mansion in cucina, come pulire e affettare verdure, che mi lasciarono abbastanza tempo per continuare a praticare le posture yoga e alla lettura di testi spirituali.

I pochi residenti erano per la maggior parte arrivati recentemente. I locali erano stati costruiti l’anno prima, e solo due persone ebbero il coraggio di affrontare l’inverno a 2500 piedi d’altezza. Adesso venivano offerti regolarmente programmi al fine settimana e giovani aveva iniziato ad arrivare e rimanere a risiedervi permanentemente. Oltre a Satya, c’erano Jaya e Sadhana Devi. Il fine settimana successive al mio arrivo, salì anche Swami Kriyananda, che aveva terminato le classi di yoga, e a breve tempo arrivarono anche is suoi due assistenti, John Novak e Sonia Wiber (Jyotish e Seva). Devi arrivò circa una settimana dopo di me.

Meditazione

Sebbene avessi studiato hatha yoga con Kriyananda, non avevo seguito il suo corso in raja yoga. Osservai come ad Ananda, erano tutti felici e pacifici quando meditavano, e presto sentii il desiderio di imparare. Dopo qualche settimana, presi la decisione: «Oggi imparo a meditare». Quello stesso pomeriggio mi recai nel duomo di Kriyananda e bussai alla porta timidamente. Sentii un debole «entra, prego» e quando entrai mi accorsi che era a letto ammalato con l’influenza. Porgendo le mie scuse per l’intrusione e pronta al rapido ritiro, mi chiese: «Perché sei venuta?». Io risposi, sempre indietreggiando verso la porta, che ero interessata ad imparare a meditare, ma che sarebbe andata bene lo stesso rimandare ad un’altra volta. Rispose con una reaziode del tipo: «questo sembra il momento scelto, percui facciamolo adesso».

Anche se aveva chiaramente la febbre, si alzò immediatamente, mi invitò a sedermi e mi diede un’intera lezione sulla tecnica dell’Hong Sau, includendo un’ispirevole spiegazione su come le correnti di energia scorrono attraverso la spina dorsale astrale. Me ne andai dalla sua casa colma di gratitudine e con grande entusiasmo mi recai immediatamente al tempio per provare la tecnica da sola.

Riguardando questo momento a distanza di trent’anni, mi rendo conto chiaramente di quanto imparai quel giorno. Oltre al dono prezioso della pratica stessa della meditazione, vidi in atto un esempio di servizio privo di interesse personale: Kriyananda non permise alla sua indisposizione di interferire con il suo servizio spirituale a cui era stato chiamato a rendere. La sua risposta fu priva di esitazione. Il suo stato di salute non divenne un ostacolo.

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Giovane Shivani

Notai un’altra cosa quell giorno nel modo in cui Kriyananda rispose alla mia richiesta, che ho visto in innumerevoli occasioni, un’atteggiamento che considero uno dei suoi distintivi della sua eredità spirituale: quando il momento è maturo, quello è il momento di agire. I momenti di vera ispirazione sono davvero fugaci,e quando ponderiamo e riflettiamo, soppesiamo e bilanciamo, l’ispirazione è spesso svanita e con essa un’opportunità è persa.

Cerco di ricordare le lezioni di questo giorno, ogni qualvolta qualcuno mi chiede aiuto, o quando qualcosa di inaspettato si presenta nella mia vita. Per me, questo è uno dei significati piú profondi del proverbio indiano: l’ospite è Dio.

In quel primo anno, o pressoppiú, Kriyananda guidò molte pratiche degli esercizi di ricarica, yoga e meditazione, e condusse tutti i servizi domenicali. C’erano alcune particolarità nel servizio domenicale che non sono sopravissute negli anni, ma a cui i residenti e gli ospiti parteciparono con entusiasmo. La mattina incominciava con un “kirtan passeggiando”, iniziato da Satya, dopo aver suonato la campana del risveglio. Mentre camminava per la comunità, cantava canti spirituali e suonava i tamburi, chiamando cos¡ i devoti alla sadhana. Coloro che erano svegli, lo seguivano, cantando e a volte suonando i piatti. Arrivavamo al tempio totalmente svegli e con in nome di Dio nei nostri cuori, e incominciavamo in questo modo le pratiche mattutine.

Un’ora prima che il sevizio domenicale iniziasse, ci radunavamo in una piccola piazzetta nel bosco. Qui, era stato preparata la bocca per il focolare, attorno alla quale erano stati disposti dei tronchi che venivano usati come panchette per sederci. Kriyananda arrivava con il suo armonio, e ci guidava in un canto spirituale. Poi accendeva il fuoco, prendeva una ciotoal con del ghee, e mentre versava il ghee nel fuoco, recitava cantando il mantra di Gayatri. Il burro chiarificato, spiegava, simbolizza le aspirazioni pure dei nostri cuori, che stavamo offrendo nelle fiamme della devozione, cos¡ che possano diventare piú pure. Poi recitava cantando il mantra Mahamrityunjaya, mentre gettava chicchi di riso nelle fiamme, dopo ogni ripetizione. Il riso simboleggia i semi del nostro karma passato, che offriamo e bruciamo nelle fiamme dell’amore e saggezza divina.

Dopo la cerimonia, alcuni di noi rimanevano a meditare per un po’, immersi nelle vibrazioni di quei mantra sacri. Mentre ripetevo mentalmente le parole, mi ricordai di altre preghiere sacre in altre lingue spirituali, e la mia anima era appagata.

Primi ostacoli

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Shivani prima fila, estrema destra

Osservavo come i miei nuovi amici crescevano rapidamente sul sentiero, mentre ricevevano iniziazione nel Kriya Yoga. Anch’io non vedevo l’ora di indossare gli abiti bianchi ed entrare nel tempio in quelle occasioni sacre, ma qualcosa mi bloccava. Malgrado sapessi mi servisse una guida, come potevo accettare un Guru, qualcuno che fungesse da intermediario tra me e Dio? E come poteva una brava ragazza ebrea come me accettare Gesú Cristo?

Alla fine chiesi consiglio a Kriyananda, mezza impaurita che mi dicesse che o accettavo Yogananda e Gesú, o dovevo andare via dalla comunità. Le mie paure erano totalmente infondate, e il suo consiglio completamente inaspettato. «Perché non consideri Dio il tuo Guru? Questa scelta non dovrebbe porre alcun conflitto con gli insegnamenti religiosi con cui sei cresciuta. Allo stesso modo, non dovrebbe essere difficile per te accettare la Coscienza Cristica universale, la presenza senza foma di Dio nella creazione. Questo è il vero insegnamento del Sanatan Dharma e di Yogananda, e dovrebbe essere anche piú facile capirlo per te, essendo cresciuta con il concetto di Dio senza forma». Questa era una risposta completamente accettabile per un problema che io avevo considerato irrisolvibile.

Quello che apprezzai maggiormente di questa esperienza, fu la sensibilità di Kriyananda verso la mia situazione. Rispettò la mia esperienza passata e mi aiutò a costruire su essa. Questo rispetto per ogni persona è anche un distintivo della sua eredità spirituale, la base dei suoi insegnamenti che «le persone sono piú importanti delle cose».

La prima estate terminò con un’intera settimana piena di classi date da Kriyananda, che chiamò «settimana di rinnovo spirituale». Ogni mattina dopo colazione, ci radunavamo sotto una grande quercia vicino al tempio, dove materassini e cuscini erano allungati per terra, con una sedia per Kriyananda. Ogni cosa di cui parlava era per me una novità, e per la maggior parte mi passava per la testa. Malgrado ciò, mi pareva tutto in qualche modo famigliare. Anche l’ambiente esterno e la calura estiva mi parevano famigliari. Avevo già sentito questi insegnamenti e fatto queste pratiche. Ero tornata a casa. Seduta l¡, ascoltando questi discorsi saggi, Sapevo di aver trovato la Verità e la Giustizia che avevo erroneamente cercato nel campo della giurisprudenza.

Trascorsi l’inverno tra il millenovecentosessantanove e settanta al Centro di Meditazione, mentre la maggior parte degli altri accompagnarono Kriyananda nella zona di Bay Area per cercar lavoro. All’inizio era stato Kriyananda a guadagnare i soldi per il deposito sulla terra, e lui continuò a versare i pagamenti per il mutuo,invitando gli altri a condividere con lui questa responsabilità. Fu a quel tempo che Jyotish creò le fondamenta per il business dell’incenso e Binay per quello della gioelleria floreale. Io ero tra i pochi che restarono a prendersi cura degli affari al ritiro.

In realtà c’era poco di cui occuparsi, e avevamo molto tempo a nostra disposizione per condurre una vita di eremiti della foresta. La dispensa era praticamente scarsa, con preponderanza di latte in polvere, grano integrale, orzo e prugne. Siccome non c’erano né entrate né risparmi, ci sostenevamo con pane, yogurt, prugne e cereali.

Essendo abituata a studiare, pensai, durante i lunghi mesi invernali, di immergermi nello studio del sanscrito. Quando chiesi a Swamiji se avesse un testo in sanscrito da imprestarmi, mi disse che fosse meglio leggere il Vangelo di Sri Ramakrishna. Trascorsi quell’inverno in un piccolo caravan che un ospite ci aveva lasciato, parcheggiato su Sunset Boulevard, assorbita in Ramakrishna e i suoi seguaci, in meditazione, praticando hatha yoga e passeggiate silenzione molto molto lunghe nei boschi. Trascorsi giorni, a volte intere settimane in silenzio, che trovai confortevoli e comfortanti. Non mi sentivo mai sola. Sebbene una parte di me credesse che forse dovrei essere andata anch’io in città a guadagnar denaro per il pagamento del mutuo, l’altra parte era grata dell’opportunità di costruire le fondamenta spirituali su cui costruire il resto della mia vita. Per quanto riguarda il mutuo, i miei giorni per piantare alberi erano ancora nel futuro.

Rinuncia

Ero ad Ananda da due anni e la stagione estiva degli ospiti e la Settimana di Rinnovo Spirituale erano finiti. Kriyananda si stave godendo un po’ di tempo in ritiro e silenzio nel suo duomo. Un giorno, mentre stavo consegnando la sua posta, che lasciavo fuori dalla sua porta, lo trovai in piedi sul terrazzo. Guando mi vide, mi chiese: «Che cosa pensi della vita monacale?» Ero così sorpresa di sentirlo parlare e ancora di piú di sentire le sue parole, che la mia mente si paralizzò e non fui in grado di dargli una risposta immediata. Dopo essere rimasta lì impiedi imbambolata per un istante, risposi: «Intendi vivere come una monaco?» «Nel tuo caso», rispose «sarebbe di vivere come una suora».

Malgrado fossi sorpresa, non ero impreparata. Avevo letto il Vangelo di Sri Ramakrishna e avevo riflettuto seriamente sulla vita monacale come una possibilità per me. Kriyananda disse che potevo pensarci sopra e parlargliene privatamente.

Proprio in quel period, ebbi un sogno interessante. Stavo lavorando con altri e stavamo creando una grande strada, usando zappe per scavare e levellare l’area. Qualcuno mi si avvicinò con il seguente consiglio: «Se vuoi progredire su questo cammino, devi amputarti il braccio destro fino al gomito». Io risposi: «sì, però poi potrò lavorare solo con un braccio e il lavoro verrebbe svolto molto piú lentamente. Lui rispose: «in realtà, se tu volessi progredire ancora piú velocemente, dovresti amputarti entrambe le braccia». A quel punto mi svegliai e comincia a meditare sul significato di quel sogno. La risposta non venne immediatamente ma col tempo capii che avrei potuto avere un progresso spirituale piú rapido, attraverso un atto drammatico di amputazione dell’ego, del pensiero che sia l’ «io» che sta lavorando. L’interpretai come un segno che avrei dovuto considerare seriamente di unirmi all’ordine monastico.

Andai a parlare con Kriyananda e mi parlò del tipo di ordine monastico che lui aveva immaginato per Ananda. Mi spiegò i tre voti monastici tradizionali, e come li vedeva nel contesto della nostra vita di comunità. Quello che mi diede piú da pensare, fu il voto di obbedienza. Non ero mai stata troppo docile in questo, e mi trovavo spesso nei pasticci con le «autorità». Fu molto comprensivo e ricorderò sempre quello che mi disse: «non ti chiederò mai di accettare i mieie consigli spirituali, poiché potrei sbagliarmi. Ti chiedo solo che tu li innalzi sotto la luce della tua coscienza. Però per quanto riguarda l’organizzazione della comunità, mi aspetto che collabori con me».

Siccome avevo capito la sua richiesta, gli chiesi di essere accettata nel nuovo ordine. Alcuni giorni dopo, sette di noi ci incontrammo nel duomo di Kriyananda per una semplice cerimonia di iniziazione.

C’erano Seva, Sadhana Devi, Satya, Binay, Jaya, John Blake ed io. Nel benedire Joh, Swami gli diede il nome spirituale di Hairdas. Quando bened¡ me, mi diede il nome di Shivani, che mi disse significa rinuncia. Pensai fosse un buon nome per una suora. L’ordine stesso lo chiamò «Gli Amici di Dio». Durante la cerimonia, Swamiji spiegò che tra tutti i tipi di relazione che possiamo avere con Dio, l’amicizia è quella piú liberatoria.Anche il Maestro, disse, che adorava Dio come la Madre Divina, disse che l’amicizia era la relazione piú elevata, perché era completamente incondizionata dalle responsabilità inerenti ad altre realzioni. Fece riferimento alla relazione con Krishna nella incarnazione in cui Yogananda era Arjuna.

Nel settembre del 1971, forse addirittura il dodici, l’anniversario spiritale di Swamiji. Ci invitò a trasferire le nostre caravan e tende sul suo terreno pirvato, che chiamò Aydhya, dal nome del regno illuminato del Signore Rama nell’antica India.

Dopo esserci trasferiti, andammo a chiedergli le linee guida per il nuovo ordine: a che ora dovremmo meditare? Le suore e i monaci possono meditare insieme, dovremmo creare uno spazio separato per la meditazione? In risposta a queste e tutte le altre domande, rispose: «decidete voi. Trovate in voi stessi la soluzione piú adeguata». Come probabilmente aveva già anticipato, non sempre prendemmo le decisioni piú saggie, e questo ci diede ampie opportunità per imparare dai nostri errori. Malgrado non participò mai in queste “pragmatiche”decisioni “spirituali”, le sue preghiere guidavano l’opera su un livello piú elevato.

Malgrado avessi delle avversità contro il ruolo di autorità in genere, c’erano situazioni in cui Kriyananda impose delle regole. Sarebbe stato piú facile alzarci presto e meditare per diverse ore, con la consapevolezza che ci era stato richiesto. Facile forse all’inizio, ma evidentemente questa non era il tipo di spiritualità che il Maestro e Swamiji volevano per noi. Dovevamo imparare a meditare e a servire perchè amavamo farlo, non perchè fossimo obbligati.

Questo è forse l’aspetto che apprezzo di piú di Swamiji, ovvero il modo in cui ci prepara. Crea delle situazioni in cui abbiamo l’opportunità di crescita e poi ci butta dentro, sapendo che o affoderemo o impareremo a nuotare, a seconda delle energie che investiamo. Tutte le situazioni che ho osservato,l Swamiji da’ a ognuno la libertà di crescere senza il peso limitante di ristrizioni, regole o condizionamenti. Spesso fa riferimento alle parole del Maestro, «trope regole rovinano lo spirito».

Nello stesso modo il monastero e la comunità sono cresciute senza troppe regole e con un gran spirito. Swamiji invitava l’oridne monacale a casa sua tutte le settimane, dove meditavamo tutti insieme, prima di ascoltarlo parlare sulle qualità spirituali che stavamo tutti cercando di sviluppare. Facevamo del nostro meglio, facevamo fatica ma per la maggior parte nuotavamo. Lavorammo sodo per costruire la comunità. Dopo il lavoro, ci radunavamo nella Ayodhya a meditare, studiare e prepararci per un altro giorno di sevizio. Altri su unirono all’ordine, e presto eravamo tra i trenta ed i quaranta, impegnati al servizio in vari settori della comunità.

In giardino

Le mie prime esperienze e crescita spirituale ad Ananda sono indissolubilmente legate al giardino biologico. Fino al mio arrivo ad Ananda, ero senza dubbi una ragazza di città, con un’esperienza limitata dei grandi spazi aperti e del grande sforzo fisico.Eppure, anche se ho vissuto solo un breve periodo tra le antiche quercie, ho fatto passeggiate lunghe nella foresta, ho nuotato nel fiume Yuba e ho osservato le alte vette in lontananza, tutto questo ha avuto un effetto profondo sulla mia coscienza. Mi sono resa conto che le mie prime lezioni spirituali mi sono state impartite dalla natura.

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L’agricoltura al Villaggio Ananda – I primi giorni

Nel 1970 Kriyanda invitò Haanel Cassidy a trasferisi ad Ananda e creare una fattoria biologica e biodinamica sulla nuovo terreno. Haanel aveta già una sessantina d’anni, praticava il Kriya yoga da diversi anni e aveva un’incredibile esperianza nel campo della coltivazione bidodinamica, acquisita in Canada e in cile, doveva aveva intenzione di vivere la sua pensione. Kriyananda gli offrì Ananda come posto di ritiro, dove avrebbe potuto praticare il Kriya e servire Yogananda insegnando a noi giovani come sviluppare una fattoria autosufficiente.

Nemmeno nei miei sogni piú sfrenati, mi sarei immaginata di lavorare in una fattoria, imbraccare letame, guidare un trattore o coltivare lombrichi. Eppure, un freddo giorno di gennaio, mi sono presentata ad Haanel ,cosa che richiese un gran coraggio da parte mia, per il suo aspetto un po’ ascetico, i capelli bianchi, il portamento nobile, gli occhi azzurri e penetranti, e gli chiesi se mi avesse accettata come sua apprendista nel giardino che avrebbe iniziato a coltivare in quell’anno. Scettico mi squadrò dalla testa ai piedi e, come da sua abitudine, con poche parole scelte accuratamente, mi disse di incontrarlo all’acquedotto (al Ritiro Di Meditazione) alle sette di lunedì mattina. Questa è stata la prima lezione, ovvero i giardinieri iniziano all’alba, quando gli yogi dovrebbero aver terminato le loro pratiche spirituali ed essere pronti a lavorare.

Era un lunedì di un freddo pungente e Haanel mi portò nel frutteto di mele, che avevamo ereditato con la fattoria. Gli alberi erano stati trascurati e non erano stati potati per anni. Mi insegnò come guardare un albero di mele e notare la forma ideale datagli da Dio, come per esempio distinguere il ramo principale e conducente attraverso il quale cresce alto; il numero ideale di rami lateraliper sostenere la statura attuale e il peso dei frutti che produrrà. Poi mi insegnò a tagliare tutto ciò che era estraneo alla forma essenziale, non solo quello che era superfluo, ma a liberare l’albero dai suoi fardelli in modo gentile e scientifico.Ogni incisione angolare, era fatta in modo tale che l’albero guarisse velocemente, permettendo alla forza vitale di fluire in una nuova direzione. C’era una vera e propria vena poetica nel moto in cui Haanel si atteggiava al giardinaggio e alla vita, e oltretutto anche lui stesso era un famoso fotografo, scrittore e cantante.

Quella mattina lavorammo insieme, lui mi mostrava quali rami erano da eliminare e come farlo. Nel pomeriggio mi lasciò da sola, aspettandosi che io facessi il piú possibile. Non solo le mie mani erano gelide e funzionavano a mala pena, ma anche la mia mente era lenta nel capire come aiutare gli alberi, eliminandone una gran parte in ognuno. Verso la fine della giornata, cominciai a capire che gli alberi non solo avessero bisogno di questa potature, e ne erano grati; ma anch’io avevo bisogno di essere putata dalle mie idee e abitudini inutili, se volessi una nuova crescita spitituale vigorosa. Piú tardi negli anni, quando incominciai a studiare il Nuovo Testamento, fui in grado di immedesimarmi con le parole del Cristo «Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto».

Spirituale

Giardinaggio

Ho lavorato nei Giardini per otto anni, dall’alba al tramonto, in primavera, estate e persino in inverno, imparando sulla spiritualità piú di quanto avrei potuto dai libri. Forse la lezione piú importante di questi anni idilliaci fu il riconoscimento del fatto che la crescita è ciclica,e dobbiamo lavorare in armonia con i suoi ritmi, a prescindere da come ci sentiamo o cosa vogliamo. Come sarebbe stato bello avere una vacanza estiva e fare escursioni nell’alta campagna. Il caldo straordinario e la siccità delle estati ad Ananda però, anche con un solo giorono senza acqua, sarebbe stata la sentenza di morte per le piante.

Mi ricordo chiaramente l’anno dell’estate indiana eccezzionalmente lunga.Avevamo una vasta raccolta di zucca, che stava maturando felicemente, crescendo in vitalità ogni giorno che passava. Dovevamo però osservare il tempo con attenzione, poichè sapevamo che dovevano essere raccolte prima del primo forte gelo. Seguì un lungo periodo piovoso con temperature calde, ma era ormail novembre inoltrato ed il gelo poteva arrivare da un giorno all’altro.

Eravamo nel mezzo di un sevizio domenicale, quando il cielo all’improviso si schiarì. Una notte gelida e stellata ci stava innanzi. Mentre eravamo in fila per uscire dal tempio, sussurrai ad un altro agricoltore: «è ora o mai piú. Saltiamo il pranzo e portiamo dentro tutte le zucche!». Lavorammo fino dopo il tramonto, ma non perdettimo neanche una zucca. Quando anni dopo ho letto nella Bibbia: «il raccolto è abbondante ma i lavoratori sono pochi» mi ricordai di quel giorno e mi resi conto di quanto lavoro si debba impiegare per raccogliere i frutti maturi della coscienza di Dio.

Mentre il giardino ci forniva verdure gustose e incontaminate, non portava soldi alla comunità, che ne aveva bisogno per affrontare mensilmente le rate del mutuo. E così incominciò la prima fase dello sviuppo e delle responsabilità economiche ad Ananda, che può essere chiamata «la fase dell’artigianato». La prima tra queste piccole imprese artigiane, fu la produzione di incenso e oli aromaticil, sviluppato da Jyotish nella Bay Area e che portò nella comunità. Allo stesso tempo, Binay sviluppò l’attività della gioielleria floreale, seguito a breve dalla produzione di cestini per piante in macram è da appendere.

La maggior parte dei giardinieri trascorrevano metà della giornata nei campi l’altra metà, incluso in inverno, impegnati nella produzione degli incensi. L’edificio della «cattedrale», era stato eretto a fianco al fienile. Era una costruzione semplice costituita di travi di legno ricoperte da materiale di plastica pesante, che assicurava agli abitanti di rimanere asciutti, ma era di poca protezione dal vento e dal freddo. Le mattine nell’edificio della cattedrali sono particolarmente memorabili. Dopo aver trascorso una notte piuttosto fredda nella tenda, arrivamo e scoprivamo che l’edificio non era piú caldo della tenda. La pasta di incense che veniva importata e in cui bisogna immergere i bastoncini, arrivava così solida che si poteva tagliare e gli olii profumati erano troppo densi per essere versati. Una buona parte della mattinata veniva trascorsa vicino alla stufa, a scaldare noi e i nostri matirali. L’edificio non si riscaldava mai, così lavoravamo con guanti che avevano la punta delle dita aperta. Una delle mie acquisizioni piú gradita furono un paio di stivali di feltro imbottiti L.L. Bean, che fecero una grossa differenza nella mia gioia di vivere.

Mentre questo tipo di lavoro ripetitivo al chiuso non fosse piacevole quanto essre all’aperto con le piante, faceva parte della sfida di essere pionieri. Mi lamentavo da molto tempo della vita materialistica, e a mio avviso, insignificante che era stata creata, senza dubbio da sacrifici indicibili dalle generazioni precedenti. Le difficoltà fisiche avevano per me poca importanza, poichè stavo vivendo uno dei miei sogni piú cari, con il lavoro delle mie mani ed il sudore della mia fronte, per costruire un nuovo modo di vivere.

Lavoro esterno

Durante un inverno agli inizi degli anni settanta, ci trovammo in una situazione finanziari così difficile, che molti dei residenti, dovettero trovare lavoro alll’esterno della comunità. Come il Maestro spesso diceva: «le cirostanze sono sempre neutrali, è il modo in cui noi rispondiamo che le rende positive o negative». Queste circostanze che sembravano catastrofiche, diede a me e ad altri la possibilità di fare quello che sorella Gyanamta chiamava «mettere a prova la propria spiritualità nella luce del giorno». Fummo costretti a lasciare il nostro nido della sicurezza spirituale e misurare la nostra crescita interiore «nel mondo».

Venemmo a conoscenza che il Sevizio Forestale offriva contratti per piantare alberelli in zone che erano state rase al suolo e bruciate. Chiunque poteva participare al concorso. La nostra era l’offerta piú bassa per ripiantare un gran numero di acri nel nord-ovest della California in una zona chiamata Campo Felice. Avevamo, se non sbaglio, dodici settimane per completare il lavoro. Se non avessimo finito per tempo, saremmo stati soggetti a multe giornaliere.

Durante quelle settimane, fummo messi tutti alla prova, che, malgrado divennero un po’ piú facili, non furono mai una passeggiata nel parco. Quando ci stavo avvicinando alla data di scadenza, e ci rendemmo conto che non ce l’avremmo fatta, chiamammo altri dalla comunità per rinforzi. A quel punto del progetto, eravamo sfiniti e i nostri corpi erano stanchi e feriti, avevamo bisogno dell’intervento divino e di altre persone. È difficile da spiegare il sollievo provato, quando quattro uomini arrivarono ad auitarci a finire il contratto. Il nostro umore salì alle stelle, i nostri corpi si sentirono rinnovati e finimmo per tempo! Tornammo alla comunità con soldi in tasca per poter contribuire alle rate del mutuo, e della forza spirituale duramente guadagnata sotto la cinghia.

Natale

Il mio periodo preferito dell’anno era Natale e specialmente il periodo che precedeva la meditazione lunga. C’era poco lavoro da fare nei giardini, perchè per molti anni erano sepolti sotto un manto di neve. La vita rallentava e tutto diveniva molto tranquillo. Molti di noi andavamo in ritiro e rimanevamo in silenzio fino alla meditazione lunga. L’atmosfera a Ayodhya era rimarchevole, profondamente pacifica e profondamente gioiosa.

Facevo uso di questo tempo per imparare di piú sulla vita di Gesú e i suoi insegnamenti. Trovai i commenti di Yogananda sulla Bibbia, publicati nelle riviste con il vecchio titolo “Cultura Interiore” e “Est Ovest”, profondamente stimolanti ed elettrizzanti nella loro universalità. La brava ragazza ebrea stave imparando ad essere anche cristiana.

L’Exanding Light a quel tempo non eisteva, tutte le attività natalizie avvenivano al Seclusion Retreat. Per molti anni, la neve era talmente alta che le macchine non riuscivano a salire l’ultima collina. Entravamo, ci asciugavamo, meditavamo poi riuscivamo nuovamente. Swamiji, naturalmente, era sempre presente con noi, e alzava la sua tunica arancione, mentre solcava la neve.

Il lato sociale del Natale ad Ananda in quegli anni era commuoventemente semplice. Il giorno di Natale ci incontravamo nel tempio con Kriyananda e ascoltavamo il “Messia” di Händel. Poi scambiavamo i regali che avevamo fatto avorevolmente, risultando in un tempio pieno di carta e nastri. Dopo il banchetto di natale, seguendo la tradizione del Maestro, nella sala da pranzo, Swamiji ci spiegava del significato piú profondo del natale.

Una conversazione che ebbi con Swamiji, che spicca particolarmente nella mia memoria, occorse nella metà degli anni settanta, mentre eravamo ad una conferenza in Vancouver, in Canada. Swamiji era stato invitato e presentato come «il padre delle comunità spirituali», un titolo onoratio che candidamente rifiutò, con un commento interessante: «non mi interessano troppo le comunità cooperative. Sono le persone che mi interessano e la loro crescita spirituale. Questa è l’unica ragione per cui ho creato Ananda. E semmai nel future non aiuta le persone in questo senso, allora non dovrebbe essere perpetuata».

spiritualePiú tardi, mentre camminavamo insieme, gli chiesi cosa vedeva nel futuro di Ananda. La sua risposta fu inaspettatamente specifica: «per qualche tempo ancora, continuerà ad esserci un implosione di energia, una costruzione della nostra base al Villaggio Ananda. Ma ad un certo punto, ci sarà un’esplosione di energia e le persone andranno in piccoli gruppi a fondare communità in giro per il Paese ed in altri continenti». Se non sbaglio accennò gruppi che sarebbero andati in India, Australia, e altri posti. «Il Villaggio Ananda», continuò, «è la comunità modello, e ha bisogno della mia energia e della mia presenza per nascere. Ma una volta che il modello è stabilito, sarà piú semplice riprodurlo, e altri potranno fare lo stesso». Mi chiesi se fossi stata mandata in un posto lontano. Ma in quel momento ero contenta del mio presente e non volevo sapere il mio futuro.

Poco dopo incominciarono a fondarsi i nostri centri cittadini, prima in Sacramento, poi San Francisco, e, piú di una decina d’anni successivi, anche in Europa e Australia. Ripensando a questa conversazione, mi rendo conto che fu piú profetica che casuale.

Il matrimonio

Il magnetism spirituale della comunità stava crescendo continuamente sempre piú forte, e molti devoti venivano attratti, come le api al miele della verità. Un numero eccezionalmente numeroso arrivò nel 1974, e tra loro c’era il mio futuro marito, Arthur Lucki. Era sul sentiero da diversi anni, un Kriyaban e, grazie a Dio, un imprenditore edile.

Ero felice nel monastero, sebbene avessi la mia giusta dose di difficoltà. Non avevo mai pensato di andarmene e, certamente, non aveno nessun desiderio di sposarmi mai e avere una famiglia. Eppure, quando Arthur mi fece la proposta di matrimonio, indirizzai la proposta al mio padre spirituale. Fui assolutamente terrorizzata e scioccata quando mi suggerì di accettare. Il suo ragionamento era liscio e semplice: spiritualmente sarei cresciuta di piú in una relazione, che se fossi rimasta al monastero. C’erano altre lezioni che dovevo imparare in quell momento.

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Shivani e Arjuna

Io e Arthur ci sposammo dopo sei settimane, il 25 aprile 1975 sotto una luna piena e estremamente auspiciosa da un punto di vista planetario, con una cerimonia serale semplice presieduta da Syamiji. Nel suo discorso rivolto a noi, quella sera, Swamiji ruppe il ghiaccio della solennità dicendo: «Questa unione dovrebbe essere di buon auspicio per tutti, poichè non è detto che la pace verrà quando il leone della Giudea si coricherá con l’agnello di Cristo?» E quando durante la cerimonia diede a Arthur il nome spirituale di Arjuna, principe dei devoti, sentii che il Maestro stesso stava benedicendo il nostro matrimonio. Il suo discorso quella sera era sul tema del matrimonio tra rinuncianti, sul vivere per Dio prima di tutto e servirLo nel coniuge, che dovrebbe essere considerato un canale per l’amore divino di Dio.

Per me, non molto cambiò nella mia vita. Facevo lo stesso lavoro, avevo gli stessi amici e lo stesso scopo e lo stesso obiettivo. In aggiunta, avevo un compagno favoloso, con cui servire e crescere. Ho sempre considerato questo matrimonio un dono spirituale e una grande benedizione. Non è mai stato il centro della nostra vita, ma piuttosto un altro apetto della nostra vita che viene dedicata a Dio. Decidemmo consapevolmente di non creare la nostra famiglia, in modo di poter servire la famiglia estesa di Yogananda, ovenque ci porti. Nel 1985 venne la chiamata, e Swamiji ci chiese se volessimo servire nel nuovo centro stabilito in Italia, dove siamo rimasti da allora, vivendo insieme ad altri cinquanta devoti nella nostra comunitá europea.

Fonte: Riflessioni sulla vita, di Sara Cryer, 1998

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Arjuna e Shivani

5 Comments

  1. mm

    Ho le lacrime agli occhi!
    Grazie Shivani di questo commovente racconto pieno di ispirazione che ci mostra quale dovrebbe essere lo spirito da avere nella vita: spirito di avventura, coraggio, entusiasmo, gioia, curiosità, sorpresa, energia, dedizione instancabile!
    Grazie per essere un esempio di tutto ciò per noi!!!

  2. mm

    Che meraviglia!!! Che grande esempio Shivani ! Quanta forza di volontà e costanza nel voler vivere la trasformazione.
    Difficile credere che sia possibile ma conoscendoti posso dire che lo è!!
    Mi inchino alla tua determinazione che mi guida.
    Grazie.

  3. mm

    Grazie Shivani, hai raccontato così bene nei dettagli l’inizio di questa fantastica realtà di Ananda dal tuo punto di vista, con tutta la sincerità, la verità e l’amore possibili! Ho capito che quando vogliamo seguire il nostro desiderio dell’anima e capiamo di essere sulla strada giusta, allora ci arrivano il coraggio e l’aiuto di Dio. Grazie di cuore.

  4. mm

    Una storia incredibilmente bella, di devozione, grandissima fede e servizio. Il cammino spirituale di una grande anima che ha offerto la sua vita alla Madre Divina.
    Grazie per la condivisione che è un esempio per tutti.

  5. mm

    Grazie Shivani, starei a leggere le tue testimonianze per giorni interi.
    Respiro nelle tue parole aria di libertà, coraggio, gioia pura; quanta gratitudine sento per te, Arjuna, Swamiji e per tutte le anime che hanno costruito Ananda!!!! Raccontaci altro, raccontaci di più 🌟🌟🌟

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