Dev’essere essere stato a metà degli anni Novanta, quando facevo parte di un piccolo gruppo che trascorreva, in maniera informale, del tempo con Swami Kriyananda, arrivato dall’America pochi giorni prima.

L’energia era alta e gioiosa, come sempre alla presenza di Swami, e la conversazione fluiva liberamente. Sapevo delle sfide che aveva dovuto affrontare in America, dove era stata intentata una causa legale contro di lui, da sedicenti nemici, per distruggere la sua reputazione. Così ad un certo punto chiesi: “Swami, come è andata?”

“È stato terribile”, rispose, e nei suoi occhi c’era un’espressione di sincero dolore.

Poi la conversazione continuò come prima, gioiosa e informale. Ma ancora una o due volte ripeté: “È stato terribile”.

Anche nell’autobiografia di Yogananda troviamo esempi di vero dolore. All’età di nove anni Mukunda (il suo nome pre-monastico) perde la madre terrena. A proposito di quell’esperienza il Maestro in seguito scrive:

Quando giungemmo alla nostra casa di Calcutta, non potemmo far altro che contemplare lo sconvolgente mistero della morte. Caddi in uno stato quasi senza vita.

Se anche un grande Maestro come Yogananda e un discepolo avanzato come Swami Kriyananda hanno dovuto sperimentare un dolore così opprimente, perché allora Sri Yukteswar lo elenca tra le meschinità del cuore?

Il dolore autentico si verifica quando il cuore si rende conto della profondità dell’amore per il caro perduto, per gli amici che ci hanno tradito, per il partner che ci ha lasciato (o che abbiamo lasciato), per le sofferenze degli altri.

Al di là di quel dolore può nascondersi persino un senso di gratitudine per la piena realizzazione dell’amore per l’altro: troppo spesso questo tipo di realizzazione arriva solo al momento della perdita. In ogni caso riflettiamo su un sentimento profondo, non un’emozione, che è di solito meglio vissuto nella solitudine del proprio cuore.

Questo tipo di dolore non è certo un ostacolo: piuttosto pone la nostra vita in una prospettiva diversa da cui magari si può trarre un po’ di saggezza. Inoltre, il senso di gratitudine per un amore così profondamente sentito, insieme al dolore, può anche rappresentare un passo avanti nel nostro viaggio spirituale.

Per capire il punto di vista di Sri Yukteswar, dobbiamo studiare come i grandi si relazionano al dolore.

Guardiamo a Yogananda e al suo discepolo diretto.

Il dolore nel cuore di Swami non era tanto per la causa legale in sé, quanto per il fatto che il suoi fratelli discepoli, che erano stati con lui al Monte Washington quando il Guru era ancora in vita, l’avevano messa in piedi contro di lui.

Coloro che conoscevano meglio Swami hanno condiviso il fatto che c’era un dolore per questo tradimento; che lui lo ha lasciato sussistere, distaccando allo stesso modo la sua mente da esso per prevenire la formazione di complessi. La sua mente e la sua volontà erano libere, così come il suo cuore, di sentire ciò che provava: dolore, a volte, ma soprattutto amore per Dio e per tutti coloro che Dio gli aveva mandato per guida e amicizia; e sempre c’era la piena accettazione di ciò che è.

Questo è ciò a cui conduce l’autocontrollo yogico, a lungo termine: un cuore calmo, libero e accogliente.

Infatti, durante quell’incontro informale, la mente di Swami era libera e faceva risplendere la sua luce con completa chiarezza su qualsiasi argomento della conversazione.

Yogananda racconta come lui, dopo aver perso sua madre in così giovane età, cercò la guarigione finale per le sue ferite:

Trascorsero anni prima che il mio cuore potesse riconciliarsi. I miei pianti, levandosi fino a scuotere le porte del cielo, attrassero infine la Madre Divina. Le Sue parole risanarono definitivamente le mie ferite ancora aperte: «Sono Io che ho vegliato su di te, vita dopo vita, nella tenerezza di molte madri! Scorgi nel Mio sguardo i due occhi neri, i begli occhi perduti cui tanto aneli!.

Gli sforzi spirituali del giovane Mukunda, che Yogananda qui ha voluto riportare, dovevano mostrare come solo Dio può portare la guarigione finale e che il percorso spirituale è una questione di vita (con lo Spirito) o di morte (senza Spirito).

Così sia Yogananda che il suo eccelso discepolo usarono la forza della loro mente per non essere sopraffatti dal dolore più a lungo del necessario e per rimanere in contatto con il potente fiume del dharma delle loro vite.

Potrebbe essere, quindi, che Sri Yukteswar si riferisca al dolore mentale come a una meschinità … non del cuore, ma per il cuore?

Se la mente non è tenuta sotto controllo, può svilupparsi un falso dolore – l’abitudine di fissarsi melanconicamente su cose accadute molto tempo prima e che hanno ormai perso ogni relazione significativa con il presente.

Questa abitudine indebolirà sempre ogni potere di iniziativa.

Come possiamo evitare che il dolore diventi un’abitudine della mente che dura per sempre?
Ecco alcune possibili strategie:

  • Cerca di adottare un linguaggio impersonale, non dicendo: “Sono a lutto” ma piuttosto: “c’è dolore nel mio cuore”;
  • Dopo un periodo iniziale di lutto, vedi se è di aiuto parlarne meno e sii sempre giudizioso nello scegliere le persone con cui condividere i tuoi sentimenti;
  • Consenti al dolore di manifestarsi, quando arriva, ma usa la tua volontà per focalizzare la mente su altre realtà edificanti. In altre parole: usa la tua forza di volontà – non per reprimere i sentimenti, ma per distaccare la mente da essi;
  • La vita è breve e i nostri giorni si contano. Il Sentiero spirituale è una questione di vita o di morte. Pertanto, proviamo a prendere coraggio dall’esempio del Maestro, usando le tecniche che ci ha dato come cavallo da battaglia e armatura “per assaltare le stesse porte del paradiso”.
  • Ascolta la canzone di Swami “The Non-Blues” … e divertiti!

E infine:

• Fidati del potere del cuore di guarirsi da dentro: è dotato, dice Sri Yukteswar, di “amore naturale, il dono celeste della natura”.

Se tutto questo è vero, allora natura e Spirito, umano e Divino, vivono insieme nei nostri cuori. Il Divino porta naturalmente nutrimento e guarigione, se solo sviluppiamo una forza di volontà sufficiente per impedire alla mente e all’ego di interferire.

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